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Amerique….Quella volta che perdemmo per diventare grandi

Quando Jules Lepennetier, un simpatico omino della campagna francese con somiglianza marcata a Joe Pesci, uscì dal “vestiare” delle scuderie di Vincennes vide diretto davanti a sè un cavallo baio, di corporatura non sacrosanta, e corretto da qualche finimento restò un po’ sorpreso che quello fosse il famoso  Varenne. Ma il driver del favorito General du Pommeau era furbo, e prima di accantonarlo solo come uno degli altri,  disse ai vicini: “Se questo va così forte ora, quando non sarà più un puledro chissà cosa farà”.  Già perché per i transalpini, ai tempi, un cavallo di appena 5 anni era ancora puledro. Ed è passato di tempo dal quel Grand Prix D’Amérique,  e pure di idee scalfite e sgretolate  ne abbiamo ora molte in cantina. Quel giorno   era il 30 gennaio del 2000, il trotto francese dopo decenni di domino assoluto vedeva vacillare le certezze della razza di trottatori fatta per quella pista  nera, per quella distanza dei 2700 con i saliscendi, e la partenza con i nastri. La fuga impossibile divenuta realtà di Sea Cove e Jos Veerbeck nel 94, la stoccata elegante di Ina Scot, che consegnò alla storia Helen Johansson l’anno dopo, e la passeggiata della musa americana Moni Maker con il primo Bazire nel 1999,  rappresentavano nel sentire popolare i classici tre indizi che facevano la prova che il monopolio casalingo era solo un ricordo.  Stavolta toccava a Varenne mettere paura, quel cavallo italiano che  a quell’Amérique ci arrivò grezzo, senza strategia, spinto dall’incoscienza e dall’impazienza dei suoi uomini, che però una cosa già la sapevano, quella di avere tra le mani un cavallo fuori dal comune. Imbattibile in casa, aveva fatto colpo senza rubare l’occhio in una corsa a fine dicembre, pure dopo aver sbagliucchiato al via. Figlio di un certo Waikiki Beach, che sembrava un’invenzione stralunata e di una certa Ialmaz, l’italiano non aveva coerentemente nulla per invadere la Francia. Ma aveva tutto, perché dentro il superfluo c’era il cuore, italiano e feroce di un animale diverso dal resto del mondo.   La gente dell’ippica, allora più di quella d’oggi credeva loro, talmente tanto da aver invaso il Plateau de Gravelle con striscioni, bandiere tricolori, cappellini e la voglia di  essere finalmente protagonisti al cospetto di chi ci aveva sempre considerati minori, almeno in quella corsa epica, che il solo Mistero nel 1947 aveva sbancato. Spiccavano e si sentivano rumorosi tra i 35.000 delle tribune, in un pomeriggio freddo come solo a Vincennes può essere, nel silenzio tra una corsa e l’altra di un’ippica a cui bastavano i grandi campioni per soddisfare  il pubblico di entertainment. Il vento soffia forte alle spalle di chi sogna, e non sono solo le vittorie a scrivere la gloria,  e fu così che come aveva intuito Jules, l’avversario di quel ggiorno, e come ne erano certi il simpatico dandy romanesco  Giampaolo Minnucci e l’imponente finlandese con animo napoletano Jori Turja, Varenne il 30 gennaio 2000 con un terzo posto cambiò la nostra storia, quella dell’ippica italiana, e un po’ anche  del trotto mondiale.  Le partenze, non era pronto Varenne per quelle con i nastri, la sua voglia di andare subito  si scontrava con le regole casalinghe dello starter francese, che aspettò la partenza peggiore per il Capitano ormai nervoso, per darla buona, tanto che il nostro si ritrovò ultimo con un gruppone compatto davanti. Giampalo Minnucci a quel punto  “persa per persa”, decise di gettare l’irrazionalità oltre l’ostacolo e piazzò  Varenne in mezzo alla pista, che come un rullo compressore inscenò i 2000 metri più straripanti che un trottatore ha mai corso, passandoli tutti, fino ad essere battuto nel finale solo dal piazzato General du Pommeau e il compianto Jules, e dall’appostata meteora Galopin du Ravary.   La tristezza dopo il palo fu giustificabile per i tifosi, per il nostro Minnù, per Enzo Giordano e per l’allevatore Viani, coinvolti nella delusione sul momento. Noi, i  più avvezzi a veder campioni veri in giro per il globo, dopo anni storditi dal complesso di inferiorità, invece  applaudimmo fino ad arrossarci le mani. Era  l’entusiasmo  di aver trovato il cavallo perfetto, sicuri che da lì in poi Varenne e l’allevamento italiano avevano imboccato la strada del riscatto, oggi splendore permanente. E a chi ci chiedeva come potevamo definir perfetto un piazzato rispondemmo con le parole di Enzo Ferrari all’indomani  di   un celeberrimo Gran Premio del Canada del 1981 in cui  Gilles Villeneuve giunse terzo dopo aver corso con  un alettone rotto che gli impediva la visuale: “Non sempre bisogna vincere per diventare grandi, ieri è bastato un terzo posto”.